C’è una storia che forse i più giovani non conoscono, una storia che parla di sogni, coraggio e di un modo diverso di vedere il mondo degli affari.
È la storia di un uomo che osava immaginare un’industria con un’anima, in un’epoca in cui le fabbriche erano considerate solo macchine per fare profitti.
Quest’uomo si chiamava Adriano Olivetti.
Adriano nasce nel 1901 a Ivrea, una cittadina piemontese circondata dalle Alpi.
Suo padre Camillo era già un industriale affermato, ma Adriano non voleva limitarsi a seguire le sue orme.
Studiò ingegneria, certo, ma nel tempo libero si perdeva nei romanzi e nella filosofia.
Si dice che un giorno, durante una visita alla fabbrica paterna, notò un operaio seduto in pausa pranzo con un libro in mano. Adriano si avvicinò e chiese: “Cosa stai leggendo?”.
L’uomo gli mostrò una vecchia edizione di Dostoevskij.
“La fabbrica deve essere piena di libri come questi”, pensò Adriano.
Questo piccolo episodio è uno specchio del suo approccio: Adriano vedeva negli operai non solo lavoratori, ma persone.
Persone con storie, sogni e talenti nascosti.
La sua grande intuizione fu questa: una fabbrica che coltiva l’umanità dei suoi dipendenti è una fabbrica che cresce.
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Durante una crisi aziendale, invece di licenziare il personale come facevano tutti, Adriano scelse di ridurre l’orario di lavoro mantenendo lo stesso salario.
“Prima vengono le persone”, diceva, “poi vengono le macchine”.
Negli anni ‘30 Adriano prese in mano le redini dell’azienda di famiglia.
Ma non si limitò a continuare ciò che aveva iniziato il padre: cambiò tutto.
Chiamò architetti modernisti, tra cui il celebre Figini e Pollini, per progettare spazi luminosi, ordinati e belli.
Non si trattava solo di estetica: ben prima che Google con la sua rivoluzione dello spazio e dell’ambiente operativo esistesse, Adriano credeva che la bellezza migliorasse il lavoro e la vita.
Poi introdusse una serie di innovazioni che oggi definiremmo rivoluzionarie.
Creò mense aziendali dove il cibo era buono e sano.
Istituì biblioteche interne, organizzò corsi di formazione e perfino conferenze di intellettuali.
Una volta invitò Cesare Pavese a parlare agli operai.
Qualcuno rideva: “Cosa ne capiscono gli operai di letteratura?”.
Ma Adriano rispondeva: “È il sistema che non li ha mai messi in condizione di capire: noi dobbiamo cambiare il sistema”.
E lo cambiò davvero.
Per Adriano, l’azienda doveva essere una comunità.
Credeva che il profitto fosse importante, certo, ma non più dell’etica.
Non tutto era sempre serietà e rigore: Adriano aveva un lato tenero e ironico.
Si racconta che un giorno un operaio nuovo arrivò tardi in fabbrica.
Adriano lo fermò all’ingresso e gli chiese il motivo. Il ragazzo, imbarazzato, disse che la sua bicicletta aveva bucato.
Adriano lo guardò serio e disse: “Non è un problema. Domani arriverai tardi perché la tua bici ha le gomme troppo gonfie?”.
Poi scoppiò a ridere e gli regalò una nuova bicicletta.
Il famoso design delle macchine per scrivere Olivetti.
Quando fu presentato il modello Lettera 22, una delle macchine più iconiche mai realizzate, Adriano convocò i suoi designer per fare i complimenti.
Ma si avvicinò a uno di loro e disse: “L’unica cosa che non mi piace è che questa macchina è così bella che nessuno vorrà mai usarla”.
Era il suo modo di celebrare il genio del team.
Ma non pensate che fosse solo un sognatore.
Adriano era un visionario pragmatico.
Sotto la sua guida, l’Olivetti creò la prima calcolatrice elettronica italiana, la Programma 101, la celebre Perottina, considerata il primo personal computer della storia.
Olivetti credeva che la bellezza fosse importante quanto l’efficienza.
Adriano Olivetti credeva nella dignità del lavoro.
Nei suoi discorsi, nelle sue azioni, emergeva sempre una visione chiara: l’economia non può essere separata dall’etica.
Per lui, la fabbrica non doveva produrre solo oggetti, ma cultura, coesione, benessere, futuro.
In un mondo sempre più dominato dalla logica del “costo minimo”, Olivetti remava controcorrente.
Pagava stipendi migliori della media.
Offriva ferie, congedi parentali e assistenza sanitaria quando nessuno lo faceva.
Diceva: “Un lavoratore felice lavora meglio”.
E aveva ragione.
Cosa ci insegna Adriano Olivetti oggi, in un mondo fatto di call su Zoom, algoritmi e lavori precari?
Forse che abbiamo bisogno di rallentare.
Di ricordarci che dietro ogni ruolo c’è una persona.
Che un leader non è solo chi comanda, ma chi si prende cura degli altri, chi ci tiene davvero.
Se hai vent’anni, la lezione di Adriano è che devi sognare in grande e avere il coraggio di sfidare le regole.
Se hai quaranta o cinquanta anni, è che non è mai troppo tardi per cambiare il modo in cui lavori e vivi.
E per tutti noi, è un invito a credere che è possibile fare industria senza perdere l’umanità.
Adriano Olivetti è morto troppo presto, nel 1960, lasciando dietro di sé non solo un’azienda, ma un ideale.
Oggi le sue macchine per scrivere sono pezzi da museo (e di arredamento ricercatissime da collezionisti e amanti del design vintage), ma il suo messaggio è vivo più che mai.
Adriano Olivetti non è solo un nome scritto nei libri di storia.
È una voce che ci sussurra di non accontentarci, di non smettere mai di costruire un mondo dove lavoro e bellezza si incontrano.
Mi piace pensare che se fosse qui oggi, Adriano sorriderebbe vedendo come molte delle sue idee siano diventate obiettivi a cui le aziende più innovative aspirano.
Ma probabilmente ci direbbe anche che c’è ancora tanta strada da fare.
Perché il suo non era solo un modo diverso di fare impresa: era un modo diverso di vedere il mondo. ✨
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